venerdì 30 gennaio 2009

diari.di.metrò II


La voce metallica annuncia: "Prossima stazione: Colosseo. Uscita lato sinistro. Next stop: Colosseo".
E si sta tutt'in piedi, condividendo la stessa aria stantia che sa di chiuso ed underground.
Scarpe alla moda, scarpe da muratore, impolverate di bianco, dai lacci colorati, col tacco, a punta tonda, con una punta sporgente come spada, occhiali dalla montatura spessa o in titanio, leggeri come piume, ciglia senza rimmel ed occhiaie scavate come rotaie, nasi aquilini, tatuaggio che nasce dall'orecchio e come ramo nasconde il collo, cappotti col cappuccio di pelliccia sintetica e maglioni a righe.
Un piercing pizzica il labbro inferiore e la matita con cui si sta scrivendo mangia tutti i particolari, ascolta voci senza ritmo, trema e frena ad ogni scossone emotivo, insieme al metrò.
Se i pensieri avessero voce questo vagone d'anime griderebbe sogni, delusioni, stanchezze e speranze, con un sibilo così forte da superare la barriera del suono.
Ancora un tunnel ed una curva, altri neon in fila, uno dopo l'altro ad illuminare pensieri labirintici. Si ha tempo di riflettere, un tempo infinitamente lungo o breve. Zaini pieni d'incoscienza giovanile, giornali vecchi solo di una mattina calpestati da piedi ingrati, occhi persi su un pavimento muto e dita dallo smalto consumato lasciano impronte del loro passaggio, proprio qui, davanti ai tuoi occhi. Un'altra stazione arriva senza accorgersene. Sale un'orchidea rosa a profumare questo pezzo d'aria. Un sorriso inatteso s'inspira come una sigaretta fumata dopo anni. C'è chi sbuffa. Chi scende spintonando, chi non cede il posto ai capelli bianchi. Chi non si pettina la mattina, chi si veste senza metter d'accordo i colori nell'armadio. Chi rende partecipi gli altri della propria telefonata. Chi guarda di traverso, chi ha le guance rosse e sembra aver appena pianto. Chi trattiene sul ventre la borsa come tesoro dissepolto. Chi consuma uno sguardo come rapace affamato. Chi appoggia la testa al vetro sporco dicendo addio ad un passato troppo recente, chi perde la strada sognando ad occhi aperti. Chi, con curiosità e nonchalance, legge le prime righe del libro del suo sconosciuto compagno di viaggio. Chi ha l'aria triste, spessa come nebbia sulle colline. Chi ha l'atteggiamento aggressivo ma gli occhi buoni, come pane appena sfornato. Chi ha le unghie sporche di grasso ed una tuta blu. Chi parla lingue di mondi lontani. Chi , invece, ha un profumo conosciuto.
S'approda come naufraghi ad un'altra stazione familiare ed il vagone d'umanità si svuota. Il pavimento s'alleggerisce, perde vita, i sedili vengono abbandonati ma le impronte di tutti quei passaggi, restano. Anche qui.
Si sale dagli inferi al cielo, solo per dare un bacio alla luna. E ricomincia la corsa, in superficie, stavolta.

giovedì 15 gennaio 2009

P.g.


Ciascuno di noi s'aggrappa, con forza, alla maniglia dell'autobus, come alle speranze che nascono la mattina sui nostri cuscini e muoiono, poi, ad ogni fermata. Le porte si spalancano e noi scendiamo insieme ai nostri sogni facendo evaporare insicurezze e debolezze. Un'altra giornata finisce e si ritrova il sentiero di casa.

Foto "Kids in a bus" di Valentine294.

lunedì 12 gennaio 2009

diari.di.metrò, une autre course.


Camminava perdendo lo sguardo all'orizzonte dei palazzi, con andatura lenta. All'improvviso, il numero 93, in tutta la sua luminosità, le sfrecciò accanto, disegnandole lo stupore sul volto. Con gli occhi ancora assonnati, afferrò - decisa - la borsa, prese - a pieni polmoni - una boccata d'aria fredda e iniziò la sua corsa. Un'altra, ancora.
Le porte si aprirono, lei balzò sull'autobus, che - miracolosamente - l'aveva aspettata. Entrò con nonchalance, col sudore raggelato sulla fronte. Si rese conto d'essere osservata e fu in quel momento preciso che abbassò timidamente le ciglia.
Affianco a lei, un viaggiatore sconosciuto, con ritmo cadenzato del piede, teneva il tempo della musica che accompagnava il suo tragitto. Lei sorrise a questo gesto così spontaneo. Con un movimento delicato si tolse il cappello e aspettò, paziente, la sua fermata. Le serrande dei negozi erano tirate su a metà, i banconi dei bar già colmi di gente ed i clacson non davano tregua.
C'è sempre chi, al semaforo, aspetta - fremente - che il rosso diventi verde e chi - impaziente - accelera affinchè l'arancione non diventi rosso. Non ci si accontenta mai.
C'è chi legge il giornale tenendosi in bilico con una sola mano, chi ha gli occhi tristi, persi in un dove troppo lontano, irraggiungibile, inafferrabile, anche da lei, da lei che nota ed osserva tutto.
Le porte si aprirono, altra gente salì, non scese nessuno.
Ci sono viaggi in cui si sta compressi come sardine in quelle scatole di latta, dalla lama sottile, che apriamo con cautela per paura di tagliarci.
Alcuni occhi sono proprio come quella lama, fessure taglienti che lasciano intravedere un mondo buio e scuro, come pozzi senza fondo. La gente ti spinge, ti alita addosso, gli ombrelli bagnati s'attaccano alle gambe, i pantaloni s'inumidiscono come gli occhi stanchi di quel vecchio, dalle mani nodose aggrappate ad un bastone di legno consumato, compagno di saggezza. Mani bianche, piccole e curate sfiorano quelle di un indiano, dalle unghie arrotondate e più chiare del palmo, mani che hanno una storia lontana da raccontare. Un'altra fermata ed altre storie s'intrecciano come tutte quelle dita che per un istante s'incontrano, si passano un pò di vita da pelle a pelle, da pupilla a pupilla. In quell'istante mattutino, che dura solo pochi minuti, si bevono occhi ed anime come fossero un bicchiere di vino rosso. Quando si scende alla propria fermata, i piedi tremano, lo stomaco tace e la testa gira. Ci si sente come ubriachi per tutto quel flusso rosso di vita che - a prima mattina - t'investe con tutta la sua straordinaria normalità.